Ho imparato a fare il vero dashi

Akira Oshima ha una faccia simpatica. Fa lo chef ad Amsterdam, dove è arrivato all'inizio degli anni Settanta ("allora nessuno voleva mangiare la mia cucina giapponese") e ha due stelle Michelin.

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Ma non se la tira. Ieri ha insegnato a uno sparuto gruppo di giornalisti, scrittori e chef (tra gli altri Elio Sironi e Lorenzo Cogo) come si fa un perfetto dashi, il tipico brodo del Washoku, la cucina tradizionale giapponese. prima però ci ha tenuto a dire quali sono le tre cose fondamentali per un ristorante, in qualunque parte del mondo sia situato: la prima è l'accoglienza, la seconda la cucina, la terza è il servizio. Due su tre hanno a che fare con il benessere del cliente e la cucina non è al primo posto. Abbastanza illuminante.

Ma torniamo al dashi. E' il fondmento del gusto nella cucina giapponese, l'origine di quel sesto gusto un po' misterioso che si chiama umami (e che abbiamo scoperto nello sconcerto generale essere presente anche nelle italianissime carote e nei pomodorini). Elemento indispensabile delle zuppe, il dashi viene usato anche nei bolliti o con l pasta lunga.

Viene preparato con le alghe kombu e il katsuobushi, scaglie di tonno bonito essiccate e fermentate, oppure niboshi (piccole sardine essiccate) e funghi shiitake secchi.

È tutto molto semplice a differenza di quel che può sembrare. Abbiamo messo nell'acqua le alghe e sono state tolte quando l'acqua ha raggiunto gli 80 gradi (non bisogna mai superare questa temperatura) e successivamente si è ripetuta l'operazione con il katsuobushi. Il brodo filtrato è il dashi.

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Prima di servire qualche portata di un menù kaiseki Oshima ci ha spiegato che in Giappone ci sono solo due modi di cucinare: tagliare e bollire.

E ci ha lasciato con la perfezione dei suoi sashimi dal rigore millimetrico. E con una certa invidia per il ministero che lo manda in giro in Europa (ma altri stanno andando in tutto il mondo, dall'Africa all'Australia) a promuovere la cucina del suo paese. Basterebbe copiare.