Per qualcuno é la Borgogna d’Italia. Di certo é il fenomeno vinicolo degli ultimi anni. Come definire altrimenti un’area che ha visto schizzare i prezzi dei terreni (da 12mila euro l’ettaro una ventina d’anni fa a 30mila agli inizi Duemila per arrivare oggi a 70mila) ed è meta di perlustrazione da parte dei più importanti produttori a caccia della “contrada” giusta? Siamo sull’Etna. Vigne che si rincorrono di terrazza in terrazza fino a salire sopra i mille metri – gli appezzamenti più pregiati – in una cornice di bellezza struggente, il nero della terra di lava che si sposa all’azzurro intenso e senza incertezze del cielo siciliano. In apparenza nulla di più lontano dalla terra di Borgogna. Eppure qui cresce un vitigno, il Nerello Mascalese, di rara eleganza e duttilità, unico e lontano dai cugini di pianura più barocchi e terragni. Tanto simile al pinot nero da esserne stato un valido alleato nei tempi amari della fillossera. “Ai primi del Novecento i paesi arroccati sul vulcano hanno goduto di uno straordinario benessere proprio grazie alla Borgogna” racconta Andrea Franchetti, uno degli artefici, se non il maggiore, della rinascita dei vini etnei. Dal 1910 agli anni Trenta la Borgogna flagellata dal terribile insetto comprava qui il vino necessario a rimpolpare i propri magri raccolti: ” risale a quei tempi – spiega Franchetti – la costruzione della ferrovia, che aveva i binari abbassati proprio per facilitare il carico delle botti, e del porto di Riposto, utilizzato praticamente solo per questo commercio di vino”. E le similitudini non finiscono qui. Questa é forse l’unica regione d’Italia insieme alle Langhe ad avere dei cru naturali, i vini cambiano da una contrada all’altra, addirittura da una vigna all’altra.
I primi a valorizzare i vini dell’Etna sono stati i Benanti. A fine anni Novanta nella zona operavano non più di una manciata di aziende e la famiglia Benanti é stata la prima ad agguantare i Tre bicchieri e a far parlare dell’area. Proprio da loro ha acquistato, poche settimane fa, l’ultimo arrivato sul vulcano. Diego Cusumano cercava terreni in zona da tre anni, ma solo pochi mesi fa, ai tavoli del bar-enoteca-centro del mondo dell’Etna, il Cave Ox di Sandro Dibella, ha avuto l’imbeccata giusta. E ora ha portato in azienda 15 ettari divisi in due lotti, uno dei quali confinante con Passopisciaro, la tenuta di Franchetti alla Guardiola, la contrada più ambita. Un investimento che una volta realizzata la nuova cantina raggiungerà i 3 milioni euro. “Quello che é successo con il brand Sicilia avviene oggi con l’Etna” spiega il giovane produttore che vende 2,5 milioni di bottiglie in 62 paesi del mondo e fattura 15 milioni. Ma il suo non é ovviamente l’unico nome noto approdato sul vulcano. Prima di lui sono arrivati Planeta e Tasca d’Almerita.
Per il resto i protagonisti sono frammentati e si distinguono per le scelte produttive. “Ognuno di noi segue la propria filosofia – racconta Franchetti, arrivato sull’Etna undici anni fa con l’esperienza blasonata dei suoi vini della Val d’Orcia, primo tra tutti il Trinoro – per me il Nerello é un vino aereo, cosmico, si lavora come un bianco”. Detto con cognizione di causa, visto che é lui l’enologo e i cru da cui produce circa 80mila bottiglie sono sue creazioni. Alla sua generosa iniziativa si deve l’impennata di notorietà di questo vitigno. Sei anni fa si é inventato una manifestazione, Le contrade dell’Etna, invitando i produttori a portare i vini dell’ultima annata per una degustazione collettiva a Passopisciaro. Un evento che di anno in anno richiama sempre più addetti ai lavori e all’ultima edizione, un paio di settimane fa, ha visto partecipare più di sessanta produttori.
La bella favola dei vini etnei deve il suo lieto fine ai “forestieri”. Quelli che vengono rapiti da bellezza e potenzialità del luogo e con passione e determinazione portano alla rinascita di un territorio, risvegliando le migliori energie locali. Franchetti é sicuramente uno dei protagonisti, un altro é Marco De Grazia, fiorentino irretito dal vulcano che ormai passa la maggior parte del suo tempo nella suggestiva tenuta delle Terre Nere. Oggi sull’Etna operano tanti produttori (solo una decina di loro fa più di 30mila bottiglie) e negli ultimi cinque anni hanno creato un mercato da 35 milioni di euro. Un fenomeno da analizzare anche se, ricorda Fabrizio Carrera, palermitano direttore di Cronache di Gusto, va ricordato che parliamo in tutto di tre milioni di bottiglie, l’1% del vino siciliano.
Ci sono i produttori locali – il più interessante é Girolamo Russo che ha abbandonato una vita da musicista per tornare a far vivere le vigne di famiglia – e molti stranieri. Questa non é terra di vini “costruiti” in cantina, assicura un enologo del luogo, e anche gli interventi in vigna sono ridotti. Ma non mancano i talebani del biodinamico. Guida il drappello il belga Frank Cornelissen, tanto ieratico e intransigente quando parla di vino, quanto dolce e disponibile mentre gira tra gli stand tenendo in braccio il più piccolo dei figli avuto dalla moglie giapponese. “Io ho imparato tutto da lui” dice Dibella, oggi il massimo esperto dei vini etnei, che nella cantina del suo locale stanno fianco a fianco con le più introvabili etichette di vini naturali internazionali. I cru di Cornelissen sono ormai nel gotha. Il Magma, Nerello in purezza, costa quanto un Sassiccaia.