Ma alla fine cosa conta di più in un cocktail? Sto cominciando a chiedermelo, mentre assisto alla competizione da cui dovrà emergere il miglior barman del mondo. Cinquantaquattro concorrenti super preparati e super agguerriti, da cui ieri sera sono emersi i sei che stasera si giocheranno il titolo in una prova che racchiude tutti gli skills richiesti a un professionista. In pratica dovranno metter su un bar, dimostrando capacità gestionali oltre quelle – scontate – di tecnica pura.
Quello che però mi fa riflettere, dopo aver seguito le innumerevoli prove a cui si sono sottoposti i concorrenti (la più emozionante si chiamava Against the Clock: preparare 10 cocktail in 10 minuti e se non hai idee chiare e sangue freddo difficile che arrivi fino in fondo) è l’eccesso di ingredienti.
Oggi ogni bartender che si rispetti produce i propri succhi e le proprie infusioni, cuoce sottovuoto, affumica, va alla caccia delle erbe più strane. La commistione tra cibo e alcolici – quindi l’uso di erbe, spezie, verdure – non è certo una novità ma ho l’impressione che a volte la voglia di stupire prenda il sopravvento. E, come commentava uno dei guru chiamati a giudicare le prove, si rischia alla fine di far fatica a percepire qual è il liquore usato. Senza dimenticare che si rischia di provocare danni al cliente a cui spesso non si indicano nel dettaglio tutti gli ingredienti utilizzati. E sempre più persone soffrono di intolleranze e allergie…
Un Old Fashioned ben fatto, un Negroni senza sbavature: avviamo una campagna per il recupero dei classici!