Cosa significa impegnarsi al vincolo dell’eccellenza? Un eccesso di autostima? Il rischio di pomposa solennità? Per il più carismatico marchio di champagne, Dom Pérignon, significa semplicemente affidarsi all’annata. Essere sinceri testimoni di quella vendemmia, qualunque siano le sfide, domarne i capricci e accettare che in alcuni anni non verrà dichiarato il Vintage.
Una grande testimonianza di audacia. Perché a volte si riesce a battere il pregiudizio e il tempo darà ragione.
È il caso del Dom Pérignon Vintage 2010. La sua lenta metamorfosi ha richiesto quasi un decennio. Come dicono all’Abbazia di Hautvillers, “il Tempo è parte integrante dell’equazione di Dom Pérignon: il Tempo della maturazione sui lieviti, nell’oscurità delle cantine, che permette a ogni Millesimato di prosperare”.
2010. L’inverno è stato rigido, la primavera secca e in ritardo, l’estate calda ma non eccessivamente. Dopo un decennio particolarmente soleggiato, questa freschezza era sorprendente. Poi, due giorni di diluvio hanno fermato questa traiettoria ideale. In pochi giorni si è sviluppata sui grappoli la botrite, in particolare modo sul Pinot Noir.
Ciò ha innescato una corsa contro il tempo. Le uve non erano ancora completamente mature, ma andava presa una decisione, e rapidamente.
“Nel fine settimana del 4-5 settembre – ricorda lo chef de cave Vincent Chaperon – nonostante nessuno in Champagne avesse ancora avuto problemi, abbiamo avuto l’intuizione che forse sarebbe stato necessario sacrificare parte della vendemmia, per salvare le parcelle migliori e provare a creare un Vintage Dom Pérignon”.
La raccolta delle uve è stata drastica ed è costata dolorosi sacrifici. Dom Pérignon ha deciso di concentrarsi esclusivamente sulle uve risparmiate dalla botrite. Ogni giorno sono stati scelti appezzamenti specifici e le uve sono state selezionate meticolosamente, sulla base di osservazioni intransigenti.
La sfida era stata vinta. Il risultato è uno Champagne intrigante. Vigoroso e insieme aggraziato. Di grande personalità. Gli esperti raccontano di “due paesaggi sovrapposti che si svelano simultaneamente al naso: un giardino all’inglese dopo la pioggia e una giungla tropicale”.
“Immediatamente risplende la dolcezza della frutta tropicale: mango verde, melone e ananas – spiega Chaperon nel corso della degustazione online (noi tutti attenti e partecipi dalle nostre case con il bicchiere in mano) -. Poi emergono note più temperate: il pizzicore di una scorza d’arancia, la bruma di un mandarino. La fioritura dopo la pioggia. Una sensazione tattile di peonia, gelsomino e lillà”.
Al palato, ci suggerisce lo chef de cave, il vino “rivela rapidamente il suo carattere pieno, ricco, intenso. La materia prende corpo, generosa, decisa, controllata. Poi si rafforza, facendo vibrare il vino sulle note speziate e pepate. L’energia si prolunga, fino a un magnifico finale salino”.
Come ogni volta sono rapita dalla capacità di individuare ed esprimere tutte queste sfumature, ormai ho rinunciato al sogno di riuscire io stessa ad emettere percezioni così precise. Però mi godo uno champagne straordinario. E mi basta.