All’oasi – anche se ci teneva tanto – abbiamo dovuto rinunciare. Faceva troppo caldo. Così il salmastro dell’achillea che disegna arabeschi sulle dune e quel sentore particolare dell’alloro selvatico dovrò immaginarli. Ma prima di andare al ristorante è d’obbligo una tappa da Gennarino.
Gennaro Del Prete, agguerrito presidente della pesca romana. Lui e Gianfranco Pascucci, il mio anfitrione, sono amici e sodali. A entrambi sta a cuore la pesca e quindi la salute del mare. Mentre i ragazzi di Gennaro scaricano polpi e mazzancolle, loro due mi raccontano Fiumicino.
Prima scoperta, siamo in una destinazione turistica. Il riflesso condizionato è sempre Fiumicino=aeroporto. Ma lo storico centro a poche decine di chilometri dal cuore della capitale vive felicemente di vita autonoma. In questi giorni è pieno di villeggianti, bar e ristoranti sono al completo e la sera lungo il canale dove giovani e vecchi stanno appesi a lunghe canne da pesca si sentono chiacchiere in tante lingue diverse.
Certo sono ancora in tanti ad approdare in questo lembo di costa solo per attovagliarsi al Porticciolo, il ristorante di Gianfranco e Vanessa, una stella Michelin strameritata (e diciamolo, che comincia a stare un po’ stretta). Toccata e fuga per gustarsi la sua cucina di mare.
Tecnica impeccabile, al servizio di una materia prima che parla e una sala che “gira” al millimetro grazie alla regia di Vanessa. Pascucci non è un giovane talento star dei social. La sua è una realtà consolidata. Ma si è affinata negli anni grazie alla capacità di allargare lo guardo oltre al rapporto privilegiato con i pescatori. E oggi il Porticciolo ha una cucina compiutamente “di mare”.
“La mia cucina oggi non si ferma al pescato – conferma Pascucci – guarda oltre”. Si esprime con le essenze della macchia mediterranea, estrae il meglio dagli orti vicini, utilizza ingredienti locali che trasferiscono ai piatti le proprie peculiari caratteristiche. Che siano note iodate, salmastre o sapide.
Il mare è un ecosistema da preservare – aggiunge lo chef – l’habitat marino va difeso, la stagionalità dei pesci rispettata.
“Noi pescatori siamo i primi a farcene carico – afferma Gennaro – grazie alla decisione delle tre marine laziali di effettuare il fermo biologico a giugno anziché a settembre come suggerito dagli enti europei, in tre anni gli stock ittici sono cresciuti del 30%”. Nelle 10 ore di pesca effettiva al giorno i 23 grandi pescherecci di Fiumicino recuperano tonnellate di pesce: mazzancolle, rombi, sogliole, merluzzi, pesce azzurro, gamberi, polpetti…
Pascucci sceglie il meglio, ma poi va anche all’oasi wwf di Macchiagrande a raccogliere alloro, mirto e rosmarino. “Incarnano profumi identitari, l’oasi è diventata foresta ormai, i lecci che la popolano hanno più di cinquant’anni: l’achillea marittima che ricopre le dune ha bisogno del vento salmastro per crescere, l’alloro sa di macis, la parte esterna della noce moscata, il mirto è diverso qui rispetto alla Sardegna, più delicato, si sposa bene al pesce”.
Le prime volte che visitava l’oasi era quasi spaesato, ricorda. “Guardavo le dune ricche di vegetazione digradare verso il mare. Mi sono chiesto: che sapore ha una duna? Come posso trasferire questi aromi nel piatto?”. Da lì è partito un processo di ricerca e conoscenza che è confluito nel menù ‘Come è profondo il mare’. Una teoria di piatti che “legge” e interpreta il mare a varie profondità, dalla sabbia delle dune che accoglie erbe salmastre ai fondali in cui si muovono i pesci di grande taglia. Un approccio che ricorda quello – più formalizzato nel menù con l’indicazioni delle varie altitudini per ogni piatto – di Virgilio Martinez a Lima, il cuoco appena incoronato al vertice della classifica mondiale dei 50 Best Restaurants.
Meno formale ma non meno incisivo l’obiettivo che si è posto Pascucci, sempre più impegnato a fare rete tra wwf, coltivatori e pescatori. Senza dimenticare però di essere in un ristorante e di avere come obiettivo primario il benessere dei propri ospiti.
I piatti in carta sono godibilissimi, molto tecnici ma sempre decifrabili. Allegri. Straordinario il calamaro arrosto, un “fiore” che attraversa dieci passaggi prima di arrivare a tavola. Il calamaro viene pulito in acqua salata, per non alterarne il sapore, poi è sottoposto ad uno shock termico, cui deve la particolare texture; si affetta infine come un prosciutto, velo accanto a velo formerà un nido. Una volta in padella diventerà croccante all’esterno e scioglievole e burroso all’interno. Ad accompagnarlo una sorta di sake nostrano, realizzato con la parte esterna del calamaro insieme ad ali, testa, pelle, tentacoli, i cui tipici umori saranno smorzati dall’infusione di zenzero.
Non meno interessante la carta dei vini, che contiene una sezione dedicata alle etichette di mare, vini provenienti da vigneti prospicienti la costa, prodotti da piccole aziende selezionate dal sommelier Luca Pozzoli.
E per finire anche un tocco di pasticceria iodata, che sia il sorbetto all’ostrica o il famoso maritozzo, proposto con la panna Ammano, “più sapida perché prodotta vicino al mare”.