“Martinotti, Fernanda, Martinotti, non Charmat! Perché non siamo mai capaci di farci valere? Era arrivato prima lui, un italiano, ma per tutti la fermentazione in autoclave è frutto della pensata di un francese….”. Quante volte me lo avrà detto. E non era l’unica “battaglia” contro gli avversari-amici d’oltralpe (non a caso il suo vino preferito era il Pinot Noir).
Toni Cuman se ne è andato ieri. Lasciando nello sgomento una cerchia di amici amplissima. Non stupisce, perché è sempre stato molto amato.
Difficile rinchiuderlo in una categoria. Toni era stato gran ristoratore (negli anni Ottanta la sua trattoria in cascina ai limiti della città, il Battivacco, era meta di giornalisti, musicisti e appassionati di buon cibo – mitiche le sue partite a carte con Gianni Mura). Ma era anche sommelier e grande conoscitore di vini, esperto di cibi, cacciatore di specialità e di giovani chef destinati a farsi strada (quanti, oggi famosi, sono passati per la sua storica rubrica Saranno famosi sulla Cucina Italiana diretta da Paola Ricas). Era un gran goloso, ma a differenza di tanti critici gastronomici anche paludati, sapeva sempre distinguere e non aveva peli sulla lingua. Se qualcosa secondo lui non andava trovava sempre il modo di dirlo. Mai con acidità o spocchia però.
Toni divorava la vita. La adorava. E la attraversava con leggerezza, sempre con il sorriso sulle labbra. “L’ironia è necessità” era uno dei suoi motti preferiti.
Gran sacerdote dei Gourmettari, circolo ristretto di golosoni devoti alla Cassoela, aveva una vera passione per i maiali che collezionava a migliaia sotto ogni forma. Di vini ne sapeva tanto e negli ultimi anni aveva anche cominciato a farsi i suoi con l’etichetta Beladea, creata con un piccolo gruppo di amici. L’amicizia era sempre intrecciata con la sua attività, così come l’entusiasmo dirompente e il gusto della battuta, che non veniva mai meno.
Ha insegnato tanto a tanti. E per questo oggi viene tanto rimpianto.
Tutto quel che ho scritto è naturalmente vero ma su Toni Cuman pecco di parzialità. Perché lui ed Elisabetta da quasi quarant’anni sono stati la mia seconda famiglia.