Sostenibilità, meno parole e più buon senso. Il Manifesto di Lubiana

Non capita tutti i giorni che al termine di una manifestazione sul mondo del cibo a tirare le somme arrivi il Primo ministro del Paese. Eppure nessuno era stupito a Lubiana, quando sul palco dello European Food Summit è salito il premier sloveno Robert Golob. Era un semplice riconoscimento dell’importanza di queste tematiche per il Paese. Il piccolo stato europeo che incrocia le impronte sul Carso con il nostro Friuli ha giocato bene le sue carte e nel giro di pochi anni è stato capace non solo di ottenere uno spazio di rilievo sulle mappe dell’alta gastronomia (di questo dovrà essere eternamente grato ad Ana Roš) ma soprattutto di fare del tema – cibo sostenibile, giusto, accessibile – un driver di sviluppo che dalla ristorazione si irradia ad agricoltura, mondo del vino, artigianato e industria alimentare. Ed ovviamente è diventato un grande volano per il turismo. Chapeau.

Il Primo ministro ha assicurato ai partecipanti che il governo sloveno “fa sul serio” in materia di sostenibilità alimentare e che presto adotterà importanti misure al riguardo. Non solo dal punto di vista della produzione, anche sul campo più largo della salute e dell’ambiente. Golob non si è nascosto dietro generiche affermazioni di principio: ha sottolineato l’importanza di ridurre la produzione di carne, che ha un impatto devastante sull’ambiente, e le emissioni di anidride carbonica. “Questo non significa che dobbiamo escludere la carne dalla nostra dieta – ha detto – ma piuttosto che non dobbiamo consumarla eccessivamente. Per essere responsabili nei confronti del pianeta e avere abitudini alimentari sostenibili, è meglio privilegiare vegetali di stagione e prodotti localmente. Questo fa bene anche alla nostra salute”. In sostanza ha affermato che l’autosufficienza e il rispetto per l’ambiente debbano essere i principi guida della politica agricola slovena del futuro. Parole chiare e inequivocabili.

E musica per le orecchie degli organizzatori del summit che hanno presentato un manifesto sull’alimentazione responsabile. A illustrarlo è stato Martin Jezeršek, organizzatore della manifestazione e amministratore delegato di Jezeršek Catering. Il Common-Sensitarian Diet Manifesto è stato redatto da un’ampia gamma di esperti, non solo nel campo della gastronomia, hanno contribuito anche operatori di scienze sociali, agronomi, psicologi ed economisti. La “Nuova Cultura Alimentare del Buon Senso” tiene conto non solo delle esigenze individuali del consumatore, ma della società nel suo complesso. Non è estrema e fa appello a un impegno morale personale e al contributo del singolo – per quanto nelle sue possibilità – al cambiamento sociale, economico e politico. Auspica il ripristino di sistemi alimentari sostenibili con il minor possibile impatto negativo sul clima e sull’ambiente. Insomma, invece di porre obiettivi altissimi e irrealizzabili propone di procedere magari a piccoli passi, però lungo la strada giusta. Questi alcuni dei semplici principi guida.

“Seguo una dieta con una minore impronta ambientale, quindi gli alimenti di origine vegetale costituiscono la maggior parte della mia alimentazione. Mangio meno alimenti di origine animale, in particolare meno carne lavorata e carne rossa. Includo il più possibile alimenti di produzione biologica nei miei pasti. Contribuisco attivamente a ridurre gli sprechi alimentari. Acquisto alimenti da produttori locali. Evito le confezioni di alimenti e bevande non necessarie e non rispettose dell’ambiente”. Niente di eclatante? Già mettere in pratica queste poche regole darebbe una svolta. Come ha ricordato Marleen Onwezen un solo pezzo di carne macinata da 100 grammi crea un’impronta di carbonio equivalente a un viaggio in auto di 60 chilometri.

 

Il cambiamento è necessario, il desiderio di agire c’è, ma c’è ancora un enorme divario tra ciò che la gente pensa che debba essere fatto e ciò che viene fatto. Ana Roš, la cuoca che ha portato Hiša Franko nell’empireo dell’alta cucina mondiale, ha spiegato che oggi gli chef dovrebbero approfittare del loro ruolo di “rockstar” agli occhi del pubblico per incitare al cambiamento. Può non piacere ma a volte un semplice post di un personaggio pubblico vale mille dibattiti e convegni.

Non il caso del Food summit sloveno, va detto. Se la prima parte dell’incontro è stata dedicata agli accademici (avvincente l’intervento di Dan Saladino che ha raccontato la dieta del popolo Hadza in Tanzania, ancora cacciatori-raccoglitori, uno spunto interessante per le nostre diete fondate sulle monoculture) nella seconda metà il dibattito, diretto dall’impareggiabile Andrea Petrini, è stato davvero rock’n’roll. A partire da Adahlia Cole, oggi autrice e fotografa di successo, chiamata ad intervenire sul tema: How shaggable is your restaurant?”. Il tuo locale è sexy abbastanza? Cole ha decisamente le carte in regola per deciderlo poiché ne ha frequentati moltissimi nella sua prima vita da escort di lusso. Le accopagnatrici e gli accompagnatori a suo parere dovrebbero interagire di più con i ristoranti perché hanno potere nella scelta dei locali e di conseguenza influenzano in modo significativo le decisioni di consumo dei loro clienti. 

 

Oltre ad essere “sexy” i ristoranti dovrebbero investire su un buon dj. A chi non è successo di rovinarsi le serata per un “tappeto” musicale inappropriato, se non inascoltabile? Christof Ellinghaus, proprietario della più nota etichetta musicale indie tedesca City Slang e del ristorante Kordo di Berlino ha confermato che una scelta musicale inadeguata può demolire l’intera esperienza gastronomica. Dopo il wine pairing e gli intriganti no-alcol pairing è il momento del music pairing…