Un inchino alla tradizione. Un lavoro certosino di recupero di antiche testimonianze. Lo studio dei menu del Vialardi, il primo a proporre sulle tavole di casa Savoia l’elenco che anticipava ai commensali le pietanze. Riempire i tempi lunghi del lockdown con decine e decine di degustazioni nelle cantine del Barolo, per scoprire la nuova identità del re dei rossi. Alla fine un lungo esercizio ai fornelli, per raggiungere la sintesi perfetta tra alto e basso, antico e nuovo, profumi, gusti, tannini, grassezze e acidità.
Enrico Crippa si è convertito al Barolo. O meglio ne ha fatto il protagonista del suo nuovo menu. Lo ha studiato, interpretato, blandito e provocato. Senza rinunciare a un-amabile beffa. Quella di abbinarlo, in terra di Fassona, alla più ruvida Vacca podolica.
Siamo nella sala rosa di Piazza Duomo, il ristorante tristellato di Alba, voluto fortissimamente da Bruno Ceretto, lungimirante e ambizioso produttore vinicolo langarolo che nel 2003 chiama qui un promettente cuoco di scuola marchesiana deciso a farne uno degli chef ai vertici dell’alta cucina internazionale. Missione compiuta, ovviamente. Dal 2005 Piazza Duomo entra nelle agende dei grandi gourmet e appassionati di vino.
Adorato dai vegetariani per aver elevato le insalate a piatto di fine dining, grazie alle decine e decine di misticanze prodotte nel celebre orto privato del ristorante (anche se forse è riduttivo chiamare orto un terreno coltivato di due ettari), oggi Crippa presenta il menu interamente dedicato al Barolo.
Un menu all’apparenza più “accogliente”, un tuffo nella rassicurante prossimità dei piatti familiari, dall’insalata russa alle lumache con polenta. In realtà una proposta di sapiente alchimia, frutto di un intelligente rilettura della cucina borghese savoiarda, con incursioni nella semplicità golosa e creativa del “riciclo” contadino.
“Quando i Ceretto mi hanno proposto questa sfida – creare un menu in abbinamento al Barolo – ero perplesso – confida Crippa – è sempre vivo in me il dogma marchesiano che ai piatti sposa l’acqua. Ma ho voluto mettermi alla prova. All’inizio pensavo agli accostamenti più tradizionali, una cucina invernale, la cacciagione… Poi cominciando a girare per cantine a degustare Baroli ho capito che la strada doveva essere un’altra”. Da lì è partita un’attività intensa che ha coinvolto la famiglia Ceretto e naturalmente il responsabile della carta dei vini di Piazza Duomo, Vincenzo Donatiello. La ricerca di testimonianze sulla cucina della borghesia ottocentesca (“oltre al Vialardi ho tratto ispirazione da un bellissimo libro, “Il cuoco piemontese affinato a Parigi””), lo studio dei pani storici (“ma quanto è difficile far gonfiare una Biova come si deve?”). Soprattutto la scoperta del nuovo mondo del rosso piemontese per eccellenza.
Il Barolo vecchia scuola continuerà ad essere il grande vino che conosciamo, riconosce lo chef brianzolo ormai definitivamente ‘piemontesizzato’, ma questi vini sono degli “assoli”, meritano di essere degustati senza l’invadente presenza di un accompagnamento, per quanto prestigioso. I “nuovi” Baroli invece, sono molto più concilianti, con l’attuale tendenza di abbassare la temperatura di servizio diventano meno impegnativi. “Meno tannici che in precedenza -rileva Crippa – sono mutevoli, continuano a evolversi nel bicchiere, riservano sorprese a un secondo assaggio”.
Sorprese le ha avute anche lui mentre con i suoi ragazzi studiava gli abbinamenti. “I piatti che ritenevo funzionassero di più spesso si sono rivelati inadatti. Sulle carni ad esempio: il brasato o comunque le salse non enfatizzavano il vino d’accompagnamento”. Di qui la scelta inedita di proporre una spoglia costata. “Temevo il giudizio del ‘grandi vecchi’ a cui abbiamo presentato il menu in anteprima, ma invece hanno capito. E approvato”. Il che, conoscendo il tenace attaccamento alle tradizioni gastronomiche dei piemontesi (“a l’è nen parei”, non è uguale, la reazione classica) non è poco.
E dunque nella sua versione definitiva il menu Barolo di Piazza Duomo si apre con un omaggio al rito dell’aperitivo italiano: il tramezzino importato da Londra nel 1925 al torinese Caffè Mulassano; l’insalata russa di origine contadina ingentilita da una gelatina che ne fa un raffinato aspic; la salsa tonnata in cui intingere un croccante cespo di insalata raccolta di prima mattina nell’orto.
Se l’Insalata vignaiola richiama l’astuto riciclo degli avanzi di bollito in salsa verde, merenda principe durante i lavori nei campi, l’Albese di carne cruda impreziosita dal tartufo estivo ci riporta alle tavole imbandite dei signori. La polentina con lumache è invece un’immersione nei deschi dei monaci benedettini. Il Risotto all’aglio orsino e il Fungo dragoncello, opulento il primo quanto essenziale il secondo, conducono all’azzardo della podolica.
Tripudio per i golosi il croccante e la Vacherin di fragole, omaggio a Cavour il biscotto da affogare nello zabaione.
I Baroli si rincorrono nel gioco degli abbinamenti, svelando le sfaccettature dei cru e non poche sorprese dalle annate meno paludate.